Non riesco a immaginare, tra gli esseri umani, qualcuno che passi la sua vita soltanto a scrivere, scrivere e scrivere . E da questo deficit di immaginazione discende un dubbio quasi eretico per il quale nessuna ammenda può bastare: che non esistano degli scrittori “e basta”, e se esistono ho il dubbio che siano, sì, delle persone geniali, ma un po’ tristi. Tristi perché sono costrette a scrivere per campare, col rischio di scrivere libri non veri, che non sgorgano dall’anima, dettati dal bisogno, manufatti talora di plastica.
Non era di certo tale uno scrittore galatinese per me davvero geniale che viveva l’approccio alla scrittura in modo libero e spregiudicato, offrendo all’umanità un distillato di pagine davvero notevoli, vero cibo per gli assetati di bellezza. Lui nella vita faceva in genere tutt’altro: insegnava, leggeva, ricercava, creava circoli letterari, ascoltava, un fervore culturale probabilmente inappagato, aveva a cuore la crescita della civiltà e della cultura della comunità a cui apparteneva e si spendeva anima e cuore per essa, sempre con sobrietà e rispetto degli altri, avvolto da uno sguardo intriso di modestia e da una sciarpa pendente che me lo accostava a Federico Fellini.
Lo conobbi per caso, e quando sorprendendomi (poiché questa attitudine letteraria, in una riservatezza senza eguali, non era mai emersa nel contesto della pur giovane amicizia) mi regalò un suo libro, un romanzo titolato “Falce di luna”, ero per la verità un po’ perplesso, pessimista sulla possibilità di leggerlo fino alla fine. Per giunta si presentava sotto fattezze insolite come oggetto, forgiato come si usa per i libri di scuola, formato 17x24, guarnito oltretutto da una dicitura che diceva: versione per ragazzi. Non che io non mi ritenga tale, ma una tale precisazione intimidisce superata la cinquantina.
Mi misi poco convinto (lo confesso) a leggerlo, ma ne fui ben presto dolcemente catturato. Fu come abbracciare la storia e la bellezza dei sentimenti, fu come capire che ciò che si compra non vale un soldo rispetto a quello che si legge. In quella falce di luna c’è dentro sangue e cervello, ci sono sprazzi di poesia, c’è la vita, la fatica, le battaglie, c’è dentro quella saggezza della quale abbiamo tanto bisogno, soprattutto in questa epoca di dilagante follìa, c’è quella strana alchimia che viene chiamata amore. Tutto è scritto bene, in modo docile alla lettura. E’ un libro che ti parla come un amico buono e vero e che a tratti mi ha davvero emozionato.
Questa sorprendente realtà letteraria, poco conosciuta rispetto al suo valore, mi scosse al punto che imbracciai la penna e scrissi all’autore qualche rigo per congratularmi. Iniziò così una interlocuzione epistolare della quale non entro nei dettagli per rispetto. Una interlocuzione purtroppo troppo breve, ma non tanto da impedire che Egli mi donasse, con mia grande sorpresa, un altro suo libro: “La donna dei Lumi”, nella quale è ricostruita con una narrazione appassionata la vicenda umana di Antonietta de Pace. Qui, oltre al sorprendente scrittore, emerge lo storico, lo studioso, la passione civile e democratica, la spregiudicatezza di dire le cose come stanno, mettersi dalla parte del giusto, ad ogni costo. Ma tutto ciò avviene non a discapito dell’arte letteraria, sicchè questo libro mi appare come un vero prodigio tanto che non esito ad auspicarne la massima diffusione tra i giovani, anche nelle scuole, come un vero coadiuvante alla formazione dell’individuo.
Grazie Professor Duma! Grazie Rino, come volevi che ti chiamassi! Spero che l’umanità che tanto hai amato sia- almeno un po’- consapevole della tua grandezza.