La scomparsa di Gianluca Vialli è una stretta di mano alla vita. Una stretta che non è solo un saluto, un commiato terreno, ma è soprattutto un grazie. Un ringraziamento per i suoi giorni vissuti e che oggi ci fanno ritrovare migliori di come credevamo di essere. Il "mio calcio" ha perduto l'incanto, vive solo in qualche straordinario gesto atletico, in qualche perfetta geometria disegnata da talenti ineguagliabili. Il mio calcio è fatto solo di brevi passaggi televisivi che mi lasciano la freddezza e brevità del racconto. La mia distanza "dal pallone" è un aspetto generazionale che non ha la pretesa del giudizio ma solo la considerazione della diversità. Altro mondo, altro tempo. Pochi anni addietro, in occasione di un viaggio in Sardegna, acquistai, regalandola a mio figlio, la maglia commemorativa del Cagliari dello scudetto, per intenderci quella indossata da Gigi Riva. Il dono a mio figlio fu l’occasione per raccontare di un’epoca a lui sconosciuta. So bene che quel gesto è servito a me più che a lui, ma non mi è dispiaciuto vederlo andare a giocare a calcetto, con i suoi amici, indossando la maglia e la mia storia. Ecco, la storia. Gianluca Vialli ha segnato, con altri atleti calciatori, la mia, la nostra storia calcistica. Quella raccontata da Martellini e Pizzul, quella impreziosita da Beppe Viola, Gianni Brera, Giampiero Galeazzi. Una storia che si è fatta racconto perché parlava di uomini e capace di dare un senso ad uno sport, rendendo il pallone un intelligente mosaico di parole. E dietro le parole ci sono le persone, sempre. La capacità di far coincidere l'essenza delle parole con la personale esperienza umana rende potente il messaggio ed unica la persona raccontata, ed anche i sorrisi perdono la loro banalità. Ora stringo la mano a Vialli. Lo saluto e lo ringrazio non per il suo essere stato un grande atleta, un calciatore dalle qualità riconosciute. Tanti ne possiamo raccontare, non ultimo Paolo Rossi. Stringo la mano a Vialli per aver raccontato, attraverso il pallone, che immagino come un grande riflettore, il senso della parola amicizia. È da qui che parto, è qui che giungo. L'abbraccio tenero e allegro, struggente e denso, fisico e gentile, che si sono scambiati Mancini e Vialli alla conclusione del campionato europeo di calcio è la storia. Si, la storia del calcio che ho perduto. È lì che il mio pianto ha celebrato l'uomo, i due uomini, la loro vita, la vita vissuta ad osservare ed imparare cosa vuol dire abbracciare un amico. Siamo caduti per terra. Le nostre ali di cera si sono sciolte perché la nostra nuova abitudine a commentare i Tiki-taka, i rientri in copertura, le esasperazioni delle seconde voci nei commenti televisivi, ci ha portato di colpo troppo vicino al sole della vacuità. Troppo vicino al vuoto delle parole. Ma che grandi persone ho ritrovato nelle considerazioni di Massimo Mauro, Pietro Vierchowod, Roberto Mancini, Marco Lanna. Una capacità di raccontare l'uomo prima che il calciatore, la sua parabola umana che ha dato valore allo sport del calcio. L'amicizia è il senso della stretta di mano che rivolgo a Gianluca Vialli. È come se lo avessi conosciuto e ascoltato in silenzio. Il mio, il nostro silenzioso ascoltare ci fa ritrovare il senso e la bellezza delle nostre amicizie. Quelle vere. Quelle perdute e che ci portiamo dentro come una continua attesa di incontro. Quelle perdute nel tempo per nostro limite o perché ogni cosa ha un suo tempo. Quelle che teniamo strette e a cui abbiamo pensato di rivolgere un abbraccio, prima che sia troppo tardi. "Cosa diremo stanotte all'amico che dorme" si chiede Cesare Pavese nell’esordio di una sua poesia. Quei versi erano dedicati ad un amico che aveva lasciato andare via la vita. Nel caso di Gianluca ci servono per dominare lo smarrimento che ci pervade difronte all’esempio e parlano di un uomo che la vita ci ha donato. “Che diremo stanotte all’amico che dorme?/La parola più tenue ci sale alle labbra/dalla pena più atroce. Guarderemo l’amico,/le sue inutili labbra che non dicono nulla,/parleremo sommesso./………………….:” Nel mio saluto a Gianluca Vialli c'è la gratitudine per "la parola" che ha saputo donare con l'esempio. La vita perduta non ha le sembianze di un pallone calciato in tribuna, ma è una sfera che continua a rotolare nel rettangolo di gioco, oltre il novantesimo, inseguita da un uomo caparbio e nobile, mai rassegnato alla sconfitta. Un uomo che si è piegato fuori dal tempo di gioco, solo a partita conclusa. Il cancro ha vinto. Ci è rimasto un abbraccio, una voce molto più forte di ogni parola.
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