Sport 'duro' e fibrillazione atriale. Un importante studio di Marcello Costantini

"Lo sport intenso di resistenza aumenta il rischio di Fibrillazione Atriale nei maschi"

La prestigiosa rivista "Exploration of Cardiology"  ha pubblicato, il 30 luglio 2025, un importante articolo il cui primo autore è Marcello Costantini, cardiologo galatinese e professore universitario.
Il titolo dello studio di cui sicuramente si parlerà in tutto il mondo è "Endurance sport and atrial fibrillation: a mini-review of a complex relationship" (Sport di resistenza e fibrillazione atriale: una mini-rassegna di una relazione complessa).

Una breve sintesi dell'articolo che è qui allegato in originale.
E’ dimostrato che l’attività fisica, oltre a comportare una significativa riduzione della mortalità per tutte le cause, costituisce una pietra angolare nella prevenzione sia primaria che secondaria della Fibrillazione Atriale (FA), e persino del trattamento di soggetti con FA permanente (coadiuva controllo della frequenza, migliora la qualità della vita, impatta favorevolmente la trombogenesi, migliora la funzione endoteliale, favorisce un rimodellamento atriale positivo).
Eppure, un numero consistente di lavori scientifici pubblicati hanno associato l’attività fisica intensa di “resistenza” al rischio di FA, e ciò ha sollevato dubbi sui reali benefici dell’attività fisica rispetto alla prevenzione dell’aritmia.
Sembrerebbe però che il rischio di andare incontro a fibrillazione atriale praticando sport di resistenza strenuo, riguardi solo il sesso maschile e le persone di mezza età.
Per cercare di dare a ciò una spiegazione plausibile dobbiamo ricordare che la FA è un’aritmia dovuta ad un rientro multiplo caotico dell’impulso nell’ambito della muscolatura atriale: non c’è -come di norma- per ogni battito cardiaco, un solo impulso elettrico che - prodotto e propagato in modo ordinato-scandisce in modo perfetto la sequenza di attivazione elettrica e la conseguente contrazione del cuore.
Nella fibrillazione atriale si assiste al girovagare caotico di impulsi multipli nell’ambito della muscolatura atriale, alcuni dei quali affiorano ai ventricoli e li fanno battere, in modo irregolare e talora veloce. Perché la fibrillazione atriale possa insorgere è necessaria una adeguata compartecipazione tra un substrato (la massa muscolare atriale), una modulazione dello stesso da parte di fattori funzionali (vago/simpatico), in presenza di una adeguato meccanismo di innesco (rappresentato di solito da extrasistoli atriali, spesso a partenza dalle vene polmonari).
La FA incarna dunque in modo paradigmatico il concetto di “triangolo delle aritmie” di Coumel secondo cui ogni aritmia è al centro di un triangolo, ai cui vertici ci sono: 1) ll fattore anatomico; 2) la modulazione funzionale dello stesso; 3) il fattore innescante.
E' scientificamente dimostrato che lo sport di resistenza intenso impatta in modo consistente tutti e tre i vertici di questo iconico triangolo: impatta il substrato (dilatazione atriale; fibrosi attriale; infiammazione; danno cellulare ecc ); impatta la modulazione funzionale (aumento attività vagale a riposo; incremento sensitività all’aceticolina; riduzione periodi refrattari cellule atriali ecc); impatta i meccanismi trigger (incremento ectopie atriali (extrasistoli) ecc).
Una acquisizione recente è inoltre costituita dal fatto che l’endurance vigoroso e protratto porta ad un incremento del livello di microRNA circolante, un regolatore dell’espressione genica che prende parte attiva alla differenziazione cellulare, all’accrescimento, all’apoptosi.
Le modifiche del livello di microRNA dimostrate negli atleti di endurance possono favorire la fibrosi atriale, rendendo il substrato più propizio all’insorgere di fibrillazione atriale.
Va anche evidenziata la dimostrata presenza di un feedback elettromeccanico nel cuore umano, sulla base del quale eccitabilità, conduzione e attività dei canali ionici, sono influenzati dall’ “ambiente meccanico” nel quale si verificano.
Dunque, il forte impatto dell’attività fisica intensa sui “mechano gated ion channels” può modulare un feedback elettrico di tipo proaritmico e con ciò favorire l’insorgere di fibrillazione atriale.
Il rischio di FA correlato all’endurance intenso è infine probabilmente modulato da fattori genetici che in vario modo interagiscono con quanto riportato sopra, propiziando in modo più o meno importante l’insorgere dell’aritmia.
Quanto al rapporto tra genere e differente propensione alla FA negli atleti, gli studi disponibili evidenziano un rimodellamento atriale differente, sia in cronico che in acuto nei due sessi: nell’uomo-atleta prevale, in cronico, l’ipertrofia ventricolare sinistra e la disfunzione diastolica;
nella donna-atleta l’ipertrofia e la disfunzione diastolica ventricolare sinistra sono decisamente meno evidenti.
Come gestire un atleta affetto da FA? Al suo cospetto, il primo compito del medico è quello di inquadrare bene il soggetto dal punto di vista cardiologico, escludendo cardiopatie strutturali, canalopatie, distiroidismi, uso di “sostanze”.
Per quanto riguarda il trattamento vero e proprio, in assenza di studi specifici, bisogna fare riferimento alle linee guida: quelle appena pubblicate dalla società europea di cardiologia (ESC 2024) introducono il paradigma C.A.R.E. come base dell’approccio alla FA (C: comorbidity and risk factors treatment; A: Avoid Stroke; R: riduce symptoms (rate and rhythm control); E: evaluation and dynamic reassessment ) che può essere anche qui una guida preziosa.
Il trattamento, quale esso sia, non deve tuttavia impattare in modo significativo la performance fisica dell’atleta, deve essere ben tollerato, deve essere condiviso e accettato, i farmaci eventualmente adottati non devono essere inclusi nella lista delle sostanze “proibite”. Va considerato il rischio traumatico che lo sport può comportare. Ma soprattutto, alle quattro lettere del paradigma CARE  va aggiunta una quinta, la “D” di “detraining”.
Studi sperimentali sull’uomo dimostrano che il detraining da solo può ridurre in modo consistente l’incidenza di FA negli atleti che ne sono affetti. Tuttavia, non pochi atleti rifiutano il disallenamento: un atteggiamento che va compreso e rispettato. In tal caso, o comunque se il detraining non produce risultati significativi, il soggetto va gestito con “rate” oppure con “rhythm control”.
Certo, nell’atleta il “rate control” (lasciare l’aritmia a se stessa e governare semplicemente la frequenza ventricolare) è un’opzione abbastanza povera di soddisfazioni: i farmaci a ciò deputati (beta bloccanti, Ca- antagonisti non diidropiridinici, digitale) sono spesso non ben tollerati, talora vietati (beta bloccanti), o poco efficaci.
Non molto meglio se la passa il rhythm control (cercare di ripristinare e mantenere il ritmo sinusale): i farmaci antiaritmici di classe IC sono efficaci, ma se l’aritmia insorge durante gara o allenamento, la presenza in circolo di flecainide o propafenone può propiziare il trasformasi della FA in flutter atriale, che in uno scenario simile può essere condotto in modo molto rapido, anche 1:1, con conseguenze emergenziali.
In caso di insuccesso dei farmaci o come opzione di prima linea in casi selezionati, c’è l’ablazione TC, i cui risultati, dai dati disponibili, sembrano sovrapponibili a quelli relativi alla popolazione generale.
Per quanto riguarda la profilassi antitrombotica, nell’atleta il rischio valutato con CHA2DS2VA è spesso pari a zero, ma il problema non va comunque sottovalutato, posto che alcune evidenze indicano un’incidenza non trascurabile di ictus in atleti senior affetti da FA.
Nel caso venga avviata una terapia anticoagulante, l’atteggiamento sinora codificato è quello di vietare gli sport di contatto o comunque a rischio traumatico. La particolare farmacodinamica e farmacocinetica dei DOAC potrebbe forse introdurre delle novità in questo campo: si potrebbe teoricamente permettere all’atleta, calibrando l’orario di somministrazione, di svolgere gara/allenamento limitatamente al periodo in cui l’effetto del farmaco è minimo o nullo (therapeutic window).
In conclusione, lo sport intenso di resistenza aumenta il rischio di FA nei maschi, soprattutto in quelli di mezza età.
Nella gestione dell’aritmia, al paradigma CARE si aggiunge la “D” di detraining. L’argomento merita comunque ulteriori studi per definire meglio meccanismi, soggetti a rischio e gestione.