La Giornata del Ricordo non duri solo un giorno!

La testimonianza di Maria Marinari Moro

La Giornata del Ricordo non duri solo un giorno!

“Le celebrazioni della Giornata del Ricordo (10 febbraio) come di quella della Memoria (27 gennaio) resteranno parole vane se ciascuno di noi non si impegnerà personalmente, ogni giorno e in ogni occasione, a rispettare chi gli vive accanto e considerarlo simile a lui nei diritti e nei doveri, superando ogni discriminazione per diversità di lingua, di religione, di colore della pelle. Solo così RICORDARE, nel senso etimologico della parola (composta da RE= tornare indietro e COR-CORDIS = cuore), significa veramente “tornare indietro col cuore, cioè improntare ogni nostra azione al rispetto della dignità di ogni creatura umana”.
Questo il messaggio, dall’altissimo valore umano oltre che cristiano, lanciato dalla prof.ssa Maria Marinari Moro a conclusione del suo discorso-testimonianza il 10 febbraio u.s. nella Sala G.Pollio della Parrocchia S. Biagio di Galatina, in occasione della Giornata del Ricordo.
A diciotto anni lei con la propria famiglia fu costretta ad abbandonare, come migliaia di istriani, la città natale di Fiume (oggi Rijeka) nel 1946, occupata da un anno dalla fine della guerra, avvenuta nel maggio 1945, dai partigiani del maresciallo Tito. Occupazione che dopo il Trattato di Parigi (10 febbraio 1947) diventò definitiva per i fiumani e per tutta l’Istria, comprese Pola e Gorizia: quest’ultima vide addirittura passare il nuovo confine tra le strade cittadine.
La tesimonianza della nostra carissima concittadina, prof.ssa Marinari Moro, diventa di anno in anno sempre più preziosa, in quanto, poiché lo scorrere del tempo cancella il ricordo di eventi e di persone, i giovani rischiano di non comprendere il proprio presente generato da quel passato che essi però ignorano.
Per questo la relatrice in un breve excursus storico ha parlato del governo delle terre del nostro confine orientale, dapprima esercitato da Roma, poi dalla Repubblica di Venezia, quindi dall’Impero Austro-Ungarico e infine dal Regno d’Italia, compreso il periodo della dittatura fascista.
Ma ascoltiamo proprio le sue parole: “Il fascismo, non rispettando più le minoranze etniche, praticamente considerandole  non esistenti, abolì le scuole croate dell’Istria e quelle slovene dell’entroterra triestino e goriziano, chiuse i circoli culturali non italiani (e questo colpì soprattutto gli intellettuali sloveni, i più attivi e organizzati in tale campo ), vietò l’uso in pubblico delle lingue croata e slovena anche nelle chiese, per cui i parroci dei piccoli paesi  istriani dovevano fare le  prediche in italiano, lingua pressochè sconosciuta ai loro fedeli. A nulla valsero le proteste elevate presso il governo italiano dai vescovi di Trieste e di Gorizia, i quali non ottennero nulla, anzi furono entrambi allontanati dalle loro diocesi.Il fascismo proibì di imporre nomi slavi ai neonati e i cognomi croati o sloveni vennero d’ufficio italianizzati. Nei registri delle scuole italiane, che tutti indistintamente dovevano frequentare, anche i nomi dei piccoli scolari venivano tradotti in italiano, con grande stupore degli  interessati, i quali spesso, dimentcando il nuovo nome, non rispondevano all’appello della maestra: è stata questa l’esperienza di mia madre.”
E la professoressa continua. “ Nonostante i Regi Decreti fascisti, nella vita quotidiana i rapporti tra la comunità italiana e quelle croata e slovena erano improntati, generalmente, alla massima tolleranza da entrambe le parti.Si frequentavano gli stessi luoghi di lavoro e di svago. Soprattutto a Fiume, evoluta città industriale, non si dava troppa importanza alle differenze di lingua o di religione: i cattolici frequentavano le loro chiese, dove anche gli slavi trovavano sempre un sacerdote che parlasse la loro lingua; i componenti della numerosa comunità ebraica avevano a disposizione due belle sinagoghe; i protestanti, in maggioranza valdesi, e gli ortodossi, meno numerosi, si riunivano liberamente nei loro luoghi di culto. Erano frequenti i matrimoni tra italiani e slavi, e anche tra cattolici e persone di religione diversa.
La situazione cambiò dopo l’entrata in guerra dell’Italia, specialmente dopo la primavera del 1941, quando le truppe italiane invasero la Croazia, che divenne un regno indipendente, retto dal principe Ajmone di Savoia e costituito dalle province di Lubiana e della Dalmazia. I croati non reagirono militarmente all’invasione, ma ben presto si formò, sotto la guida del maresciallo Tito, un forte movimento partigiano, che con azioni di guerriglia di ogni tipo si oppose all’esercito invasore. Durissima fu la reazione dei militari italiani: tra il 1941 e il 1943 furono fucilati centinaia di ostaggi, incendiate migliaia di case, distrutti interi villaggi. Vennero deportate in campi di concentramento (che non avevano nulla da invidiare ai lager tedeschi) 30 mila persone, molte delle quali morirono di stenti e di malattie. Solo nel campo allestito sull’isola di Arbe in Dalmazia, che raccoglieva soprattutto donne e bambini, mogli e figli di partigiani jugoslavi, morirono per un’epidemia di tifo almeno 4500 persone. Tutte queste azioni di rappresaglia non facevano che aumentare l’odio verso gli italiani, che vennero giudicati peggiori dei tedeschi per la loro crudeltà.
Ma poi le sorti della guerra si capovolsero e nell’aprile del 1945 i partigiani jugoslavi si spinsero fino a Fiume e raggiunsero persino Trieste. Sbigottiti assistemmo all’ingresso nella nostra città di uno strano corteo di uomini con in testa un berretto militare ornato da una stella rossa , con divise lacere e piuttosto approssimative, armati di fucili, pistole, mitra. Le truppe tedesche, che fino a quel giorno avevano avuto pieni poteri in quella zona, insieme al prefetto e alle altre autorità fasciste erano fuggiti poche ore prima, lasciando i cittadini indifesi. S’insediarono un nuovo prefetto e un viceprefetto jugoslavi, fu stampata nuova moneta (la jugo-lira ), circolante solo nei territori occupati, furono espropriati i negozi e i proprietari ridotti a commessi con modesti salari, requisite abitazioni, lasciando al proprietario solo una stanza e le altre assegnate dall’apposito Comitato Cittadino alle famiglie jugoslave, che cominciavano a trasferirsi nelle città occupate.”
E qui la tragedia tocca il culmine. “A Fiume e a Trieste intanto venivano arrestati personaggi noti e meno noti, fascisti ed antifascisti, giovani ed anziani, militari (a Fiume furono arrestati 10 carabinieri e 50 guardie di finanza), operai, impiegati e professionisti, prelevati senza alcuna spiegazione non tornavano più a casa, non si sapeva più nulla. Della maggior parte di essi non si sono avute più notizie, di altri si sono trovati i miseri resti in fosse comuni lontane dalla città o nelle foibe della zona carsica. Ma questo si è venuto a sapere solo alcuni anni dopo la fine della guerra, per evidenti motivi politici.
Le foibe sono voragini naturali, di varia larghezza e profondità,utilizzate spesso dagli abitanti dei paesi circostanti per gettarvi rifiuti d’ogni genere. Esse sono sparse su tutto il territorio carsico e a volte nascodono caverne di bellezza impensabile, come le Grotte di Postumia vicino a Trieste, arricchite da stalattiti e stalagmiti di un abbagliante candore. In Italia, dopo la definizione dei nuovi confini orientali, ne sono rimaste solo due nei dintorni di Trieste: quella di Basovizza e quella di Monrupino. Solo queste si son potute esplorare, almeno in parte; di quelle rimaste in  territorio jugoslavo non si sa quasi nulla. Cominciano adesso gli storici a studiare il fenomeno delle foibe e a cercare di chiarire il motivo di tanta crudeltà.”
Non è stato facile per la prof.ssa Marinari Moro riandare al suo drammatico passato, riaprendo nel proprio cuore antiche ferite; ma da qualche anno, vincendo la naturale riservatezza e forse anche la paura di non venir compresa,  ha accolto l’invito di alcune scuole superiori di Galatina e di Maglie a presentare agli studenti queste pagine tragiche, a volte sconosciute, della nostra storia contemporanea. A lei va tutta la nostra comprensione insieme  alla nostra stima e gratitudine, a lei che, come tutti gli istriani dovunque siano andati in Italia o all’estero, ha dato lustro alla terra che l’ha accolta e Galatina se ne sente onorata.