Il mio Antonio Antonaci

A dieci anni dalla scomparsa

Il mio Antonio Antonaci

Non è elegante accingersi a vergare un breve ricordo di “tanto raggio” partendo da una diciamo autocitazione. Però, un po’ per far meglio comprendere il fatto e un po’ per la faccia tosta che mi ritrovo, la faccio ugualmente. Allora, vergin di servo encomio e ovviamente di codardo oltraggio, nell’aprile del 2007 per i tipi di Infolito Group (Milano) uscì, con molte, molte licenze poetiche, un mio libello di “Scritti in onore di Antonio Antonaci”, prefato da par suo dal prof. Zeffirino Rizzelli. E qui potrei chiudere il discorso rinviando il lettore a quel volumetto rabberciato alla men peggio (ma meglio di così, scusate, non saprei fare), reputando concluso questo mio intervento in memoriam e lasciando finalmente in pace questa tastiera. Invece no.
Conobbi, dunque, il prof. mons. Antonio Antonaci (io però l’ho sempre appellato con il solo titolo accademico) partendo dalla fine, voglio dire dalla sua ultima creatura in termini volumetrici, cioè il monumentale Galatina – Storia e arte (ed. Panico, Galatina, 1999) che acquistai nel 2002 presso la Libreria Viva.
Orbene, dopo aver divorato, compulsato e preso nota di molte cose contenute in quelle oltre mille pagine curatissime, non rammento bene a chi chiesi come potevo fare per incontrarne l’autore. Sta di fatto che l’auspicato convegno avvenne nella tenuta di Sirgole, feudo di Noha, dove Monsignore villeggiava nella sua graziosa casetta, sul finire dell’estate di quell’anno, precisamente il 19 ottobre del 2002.
La scusa fu l’autografo da far apporre sulla prima pagina di quel ponderoso tomo, che dunque portai con me ben allacciato al portapacchi posteriore della mia bicicletta. Fu questo l’inizio delle mie visite al Professore che avvenivano nel corso dei fine settimana, non tutti ma molti, di ritorno dal barese dove allora come ora (ma ora giocando praticamente in casa) prestavo la mia attività lavorativa alle dipendenze di un istituto di credito.
Erano incontri, quelli, nei quali non funzionava la partita doppia: il mio Dare era nullo in confronto all’Avere. Chi ci guadagnava nel corso di quei meeting era sempre il sottoscritto: non andavo mai via da quelle conversazioni senza aver appreso qualcosa, conosciuto un personaggio, approfondito un argomento di carattere storico, ecclesiale o filosofico.
Mai potrò scordare quando, per rispondere a una mia curiosità su quell’autore medievale, Antonaci mi parlò diffusamente della figura di Meister Eckart, o quando gli chiesi del pensiero di Ortega Y Gasset. Altro che Wikipedia.
E poi i libri. Quando non era egli stesso a darmene copia (“Tolle et lege” – mi diceva facendo eco alla voce del famoso bambino delle Confessioni di Sant’Agostino), provavo a procacciarmi da solo l’ambito bottino antonaciano. E così ho vagabondato per librerie antiquarie tra Milano, Bari e Roma, per curie vescovili, come quella di Otranto, dove mi procurai il volume “Editoriali”, 52 articoli pubblicati su “L’Eco Idruntina” dal ‘61 al ’67; per case generalizie, tipo quella delle Suore Apostole del Catechismo a Santa Fara di Bari, che gentilissime mi donarono il “Cornelio Sebastiano Cuccarollo”; per bancarelle, come quelle della fiera del libro di Campi Salentina, dove rintracciai e acquistai senza badare a spese “Questo è il Salento” del 1956; per mercatini di rigattieri, onde pagai uno sproposito un minuscolo fascicolo del 1952 dal titolo “S. Pietro in Galatina” - ma avrei sborsato anche il doppio; per sagrestie, come quella dell’Arciconfraternita dell’Addolorata e quella della chiesa della Madonna della Luce in Galatina, o come quella del Santuario della Madonna della Coltura di Parabita, per le rispettive guide; per circoli cittadini, tipo la Società Operaia di Galatina, per il volumetto che raccoglieva il discorso di Antonaci letto in occasione dei cento anni di storia di quell’associazione di mutuo soccorso; per case private, ad Andrano per esempio, dal nunzio apostolico Luigi Accogli, il quale, per il tramite di una sua collaboratrice spagnola, mi fece pervenire la sua biografia oltre che addirittura una lettera di scuse per non essere riuscito a incontrarmi (ma l’arcivescovo si trovava negli Stati Uniti per la cura di un cancro, che da lì a pochi mesi si rivelò fatale).
Potrei continuare a lungo stancando il lettore - quell’unico che sarà arrivato sin qui – continuando a parlare dei fatti miei e della mia amicizia con Antonio Antonaci, professore universitario, prete e scrittore, e studioso enciclopedico, osservatore acuto e dotto, pensatore illuminato e, non ultimo, conversatore divertente, senza riuscire né a delineare una sua biografia intellettuale né un’epitome della sua opera omnia.
Non m’impelago nemmeno nell’approfondimento dei cinque filoni di studio che lo interessarono, vale a dire il filosofico, il teologico, il biografico, lo storico e il socio-politico, molti sparpagliati nei suoi libri che custodisco gelosamente, se no davvero non la finirei più. Li razziavo quei libri, facendo mie molte espressioni che trovavo perfette, li sottolineavo, li consideravo una palestra del bello scrivere, li recensivo man mano che finivo di divorarli con vera appetenza cartivora.
Poi raccolsi i miei appunti nel libercolo celebrativo di cui all’iniziale autocitazione. Ma poco prima che uscissero dai torchi del tipografo quegli “Scritti in Onore”, per ben due volte, in tempi affatto diversi - la prima in quel di Cutrofiano e la seconda proprio a Noha – stavo per rimaner vittima di un colpo apoplettico allorché, viaggiando in macchina, per caso mi accorgo del manifesto funebre con su scritto il nome di (tale) Antonio Antonaci.
In entrambi i casi ho inchiodato la mia auto, con il rischio di venire tamponato, e sono sceso a controllare da vicino: in tutte e due le evenienze si trattava per fortuna di un’omonimia (un Antonio Antonaci era coniugato; l’altro, poveretto, aveva la metà degli anni di Monsignore).
Il terzo manifesto, diciamo quello autentico, ebbi modo di leggerlo a Galatina nel pomeriggio del 27 settembre del 2011: oggi di dieci anni fa. Ebbene sì, mi ci son voluti tre manifesti funebri per capire, a scoppio ritardato, che il prof. mons. Antonio Antonaci non è mai morto.