Venti anni di guerra fratricida, di risorse impegnate per garantire un futuro equilibrio internazionale, un lungo tentativo di costruzione di un governo che fosse in grado di dialogare con il resto del mondo. Oggi è una disfatta per cui si cercheranno di trovare le più inutili giustificazioni. Una conclusione drammatica per i suoi possibili sviluppi, interni ed internazionali, con una riflessione semplice ed amara, le parole del direttore di “REPUBBLICA” Maurizio Molinari: ”Il jihadismo si può sradicare solo se i musulmani trovano, nei singoli Paesi, la forza ed il coraggio di rigettarlo per loro scelta e convinzione. È una forza, morale e politica, che deve nascere da loro stessi e che neanche il più potente degli eserciti potrà mai riuscire a rimpiazzare”. Parole che fanno male. Tanto male. Parole che “annientano la guerra”, più di quanto la guerra abbia annientato vite e luoghi e cose. Parole che rendono quella guerra, nella sua inutilità, ancora più moralmente inaccettabile.
Quando la lesione della propria libertà diventa il metro di giudizio tra il bene ed il male si scatenano conflitti, si raccontano ragioni. La data dell’11 settembre 2001 è sicuramente l’argine storico, dopo il tempo dei conflitti mondiali, per definire la misura del limite, della minaccia alla propria libertà. L’invasione dell’Afghanistan fu il tentativo di porre una barriera tra la nostra cultura e quella integralista di stampo jihadista. Un tentativo militare in un territorio immenso in cui la cultura tribale, l’assenza di ogni riferimento statale, di qualunque appiglio alla cultura occidentale non ha permesso che di tessere una tela di relazioni fiduciarie ed in cui il denaro resta l’unica religione veramente utile. Oltre ogni fede. Una terra di nessuno forse. Oggi una terra dell’integralismo islamico.
Allora, chi è rimasto veramente in Afghanistan? Chi è rimasto a Kabul? Non ho scritto fino ad ora per ergermi ad esperto di politica internazionale. No, ho scritto perché animato da grande rabbia, da un dolore che ritorna, al quale avevo cercato di dare la dimensione della necessità. La grandezza di una missione si misura anche dal silenzio che la accompagna e da risultati invisibili agli occhi che rendono il sacrificio dei singoli l’anello necessario di una catena. Per quanto abietto, è un pragmatismo di Stato che tiene in dis-equilibrio il mondo.
Ho scritto perché ognuno nel proprio percorso affronta una montagna che è obbligato a scalare, con il conforto della fede, o solo, ed anche la fiducia negli uomini. Quando Dio si assenta, a noi resta il dubbio dell’errore. Quando l’uomo tradisce, a noi resta la certezza del fallimento. E solo allora ogni passo diventa eroico. Noi decidiamo di andare avanti e raggiungere la vetta, costi quel che costi. Perché noi esistiamo oltre Dio ed oltre ogni altro uomo.
A Kabul sono andati tutti via. Gli eserciti hanno svuotato le caserme, i diplomatici hanno chiuso le loro valigette, gli informatori pakistani hanno contato i propri denari.
A Kabul è prevalsa l’assenza di un Dio salvatore e dell’uomo leale. Fra tutti i corpi dilaniati, di uno a Kabul è rimasta l’anima e la sua virtù eroica, non quella iconoclasta dell’uomo che sprezzante si lancia contro il nemico. No, la virtù eroica dell’uomo che aveva capito da tempo, nel silenzio delle sue notti, nel tormento delle sue giornate, quanto Dio si assentasse e quanto gli uomini tradissero. Lui è rimasto, operando per il bene comune, senza rinuncia di responsabilità, nella certezza dei suoi principi. Lui è rimasto facendo il proprio dovere nell’attesa di un necessario ricambio che tardava a giungere.
Perché Pierantonio Colazzo, funzionario civile dell’AISE (Agenzia informazioni e sicurezza esterna) avrebbe dovuto fare rientro in Patria già da tempo, come richiesto ai superiori. La sua morte è avvenuta il 26 febbraio 2010, durante un assalto armato al Park Residence Guesthouse di Kabul che lo ospitava insieme ad una delegazione trattante pachistana ed indiana. Un commando armato ha attaccato per ore la struttura setacciando le camere, uccidendo le persone in maniera selettiva.
Pierantonio ha aiutato altri italiani e civili afghani a scappare via, ha utilizzato la sua conoscenza del Darī (la lingua locale) per governare la situazione, aiutando le milizie filo-governative ad arginare una situazione incontrollabile. Pierantonio è caduto senza scappare. Di fronte al terrore della morte avrà usato la parola per opporsi al proiettile che lo ha finito. Lui si è fatto Stato, esempio per tutti.
Oggi lo Stato scappa via, senza armi e senza parola. Sì, io sono arrabbiato. Ora le parole non hanno forza, non ha forza il dolore e nulla può la logica. Dobbiamo solo trovare un senso ad una morte più che mai inutile, fosse solo il suo ultimo respiro a parlarci. Pierantonio è rimasto a Kabul, tra i pochi a dare un senso a tutto.
Per uno Stato che scappa c’è un uomo che resta a segnarne una resa invereconda, un’umiliazione tremenda.
Non mi stancherò mai di riproporre le sua parole, le uniche che, soprattutto ora, sono il segno di quello che resta. Un esempio per il mondo che ha deciso di andare via. Perché Kabul oggi, per noi, è una stele alla memoria. Un luogo dell’anima. Un abisso della Speranza.
Di Pierantonio Colazzo (Galatina, 15 settembre 1962 - Kabul, 26 febbraio 2010): “Avere coraggio non può essere un fatto d’onore o di dignità. Bisogna decidere: combattere tutti i mulini a vento è più saggio che prendere per mano l’amore della propria vita e dare sguardi rassicuranti ai figli che ami e vuoi che vivano in pace? E se invece, ti caricassi nel cuore il rischio di perdere la tua vita per cercare, in un inferno meno buono del tuo, di salvare chi resta dal contagio di una follia immorale, sterile, suicida, per niente ironica, per niente simpatica e improvvisa? Una follia meditata, forse, non si può vincere, va solo curata con l’anima”.
Nico Mauro