Sono stati presentati ieri mattina, nell’Auditorium del Museo Castromediano a Lecce nell’ambito delle Giornate Europee dell’Archeologia, i primi risultati delle indagini archeologiche non invasive condotte dal Dipartimento di Beni Culturali dell’Università del Salento nel comprensorio della Riserva naturale statale - Oasi WWF Le Cesine (Vernole, provincia di Lecce), a terra e a mare.
Le ricerche, dirette da Rita Auriemma, sono tra le attività del progetto di cooperazione transfrontaliera – programma Italia Croazia 2014-2020 UnderwaterMuse, di cui è partner la Regione Puglia, e del Centro Euromediterraneo per l’Archeologia dei paesaggi costieri e subacquei, che vede tra gli attori coinvolti anche la Soprintendenza Nazionale per il Patrimonio Culturale Subacqueo.
Le indagini, avviate con un breve intervento lo scorso ottobre, proseguono quest’anno con un programma denso di operazioni e di contributi rilevanti; in particolare, prospezioni con droni, posizionatori subacquei e ROV (robot subacquei muniti di telecamera) di ultima generazione sono stati usati con metodologie innovative da un gruppo di docenti e ricercatori di due Dipartimenti del Politecnico di Torino, che ha realizzato il rilievo fotogrammetrico delle evidenze. Le attività, tuttora in corso, godono del supporto della ditta Angelo Colucci, della Direzione della Riserva Le Cesine, del Corpo Forestale dello Stato e dell’Ufficio Ufficio Locale Marittimo – Guardia Costiera di San Cataldo di Lecce.
Altra documentazione video e foto con drone è stata realizzata da Roberto Perrone. Come illustrato dalla professoressa Auriemma, in località “Posto San Giovanni”, nelle immediate vicinanze dell’Edificio Idrovoro della Riforma Agraria, sono presenti strutture, in gran parte di età romana, che restituiscono una visione ben più complessa dell’antico scalo portuale di Lupiae. Alcune evidenze, già indagate e documentate negli anni Novanta, possono adesso essere messe in relazione con la nuova scoperta: la fondazione di un imponente molo realizzato nella tecnica tipica delle strutture di approdo dell’Adriatico, in grandi blocchi parallelepipedi di pietra locale, largo circa 8 m, che si sviluppa con orientamento est/nord-est per un centinaio di metri. In alcuni punti si conservano due o più filari sovrapposti, ma all’esterno del tracciato della struttura si nota l’ampia dispersione dei blocchi in crollo, a causa dell’energia ambientale e alla posizione esposta ai venti dominanti.
Nella parte terminale si notano, anch’essi rimossi e riversi dalla forza del moto ondoso, tratti di canaletta scavata in lunghi blocchi di calcarenite, e lungo il fianco meridionale giganteschi blocchi sagomati, forse con funzione di bitte di ormeggio. Un’area oggi completamente coperta da sabbia per il forte apporto di sedimenti separa questa struttura dall’altra, sempre a blocchi, già documentata da Giuseppe Ceraudo e Francesco Esposito, che potrebbe essere una sua terminazione o appendice. Infine, va precisato il nesso con la cosiddetta “Chiesa sommersa”, un’altra struttura intagliata su una prominenza del banco roccioso in modo da ricavarvi tre grandi ambienti rettangolari, che affiora sulla superficie del mare. Occorre segnalare anche la persistenza di un tracciato viario che da Lecce punta direttamente all’area del molo. In ogni caso, la presenza del grande molo di San Giovanni configura un complesso portuale importante, la cui articolazione o geometria complessiva è ancora da precisare, così come la cronologia; potrebbe addirittura essere più antico del molo adrianeo a nord dell’ampia baia di San Cataldo, a cui è simile per la tecnica edilizia e l’imponente sviluppo.
Le fonti ricordano lo sbarco di Ottaviano da Apollonia al porto di Lupiae, che doveva quindi godere di una certa considerazione tra la fine dell’età repubblicana e la prima età imperiale, ed essere forse già munito di alcune infrastrutture: possiamo riconoscere queste nei resti sommersi di San Giovanni? Solo lo scavo vero e proprio potrà darci una risposta decisiva. Ma San Giovanni è un tassello nell’attività di ricerca e rilettura del comprensorio di San Cataldo, che l’Università del Salento conduce da alcuni anni; un intervento diretto da Giuseppe Ceraudo e Carla Amici nel 2014 ha riguardato proprio il molo di Adriano; in quell’occasione, il gruppo di Archeologia Subacquea individuò alcuni grossi pali che testimoniavano, grazie alle datazioni con il metodo del radiocarbonio effettuate dal Centro di datazione e diagnostica – CEDAD, l’intervento quattrocentesco di ricostruzione del porto voluto da Maria d’Enghien; lo stesso gruppo negli anni ha documentato una serie di relitti spiaggiati di età antica e moderna nelle marine di Lecce (a Torre Chianca, Torre Rinalda, Spiaggiabella, Faro di San Cataldo) e lungo la costa delle Cesine, segni inequivocabili del passaggio incessante di navi e della fitta trama di rotte che toccavano queste rive. Sia le strutture che i relitti sono peraltro anche indicatori di profonde modificazioni del paesaggio e ci aiutano a ridisegnare l’evoluzione di questo profilo costiero e le forme della presenza dell’uomo nei secoli. «Fare archeologia dei paesaggi nel comprensorio San Cataldo-Cesine, dove si recuperano anche insediamenti importanti dell’età del Bronzo, significa fare archeologia pubblica, per restituire alle comunità locali un patrimonio di eccezionale interesse», conclude Auriemma, «È da questo capitale culturale che occorre ripartire per immaginare e progettare la rigenerazione, la valorizzazione e una fruizione nuova del paesaggio dimenticato di un waterfront denso di storia».