Strana la vita, ti ritrovi a guardare avido il Festival di Sanremo che, specchio dei tempi, quasi quasi ti rappresenta un po’. Vecchio lo sono sempre stato, nel senso: il festival l’ho sempre seguito; anche quando il venerdì universitario era un appuntamento immancabile, dove se non c’eri o stavi studiando, o eri un po’ sfigato! Io ero a casa, spalmato su un orribile divano in simil pelle a guardare il festival: brutto, bello, lungo, noioso, io l’ho sempre visto.
Quest’anno, frutto ahimè di una sempre maggiore riflessione sulle cose della vita, che spesso bene non fa, sono riuscito a riflettere anche sul festival. Sì, mi sono concesso il lusso di ragionare sull’effimero, che poi tanto effimero non è! Mi sono ritrovato di fronte alle canzoni di Claudio Baglioni con una memoria diversa, quasi nostalgica: un punto di vista nuovo sulle cose della vita.
Il festival è stato bello, elegante, piacevole da vedere; ho letto qua e là alcuni articoli sulle testate nazionali, giudizi positivi dettati dagli ascolti ma non solo. Si sono succedute sul palco molte canzoni mediocri e tanti interpreti bravissimi. Claudio Baglioni ha dato un taglio di rara eleganza ad una manifestazione che è sempre in bilico, per sua natura e format, tra il trash e il mesozoico. Ha saputo, attraverso la collaborazione delle eccellenze della musica italiana, riportare alle nostre orecchie la memoria dei più bei pezzi della musica pop, arrangiandoli in maniera moderna e accattivante per chi oggi, come me 20 anni fa, si approccia al festival con cautela e superficiale ironia. La Rai con il canone in bolletta ha raddoppiato, se non decuplicato, i suoi incassi: Baglioni, avendo carta bianca praticamente su tutto, avrebbe potuto chiamare in riviera anche le ceneri ricomposte di Michael Jackson se avesse voluto. Invece no, l’eccellenza delle arti italiane ha fatto bella mostra di sé di fronte a milioni di persone, ad indicarci, forse, la strada da seguire per poter uscire fuori dalla “merda” sociale in cui siamo finiti. Il bello, il garbo, il buon gusto ci salveranno restituendoci quell’atavico senso estetico represso in ogni italiano, avvezzo al bello da Aosta a Cefalù. La musica, il teatro, il cinema la moda sartoriale sono arti date per scontate perché parte della nostra storia come il colonnato del Bernini a piazza S.Pietro, e possono essere certamente un punto di partenza. Non è vero che il bello costa, non è vero che il garbo necessita di serenità, non è vero che avere senso estetico presuppone un approccio frivolo alla vita. Sono una cura alla brutture della vita. Essere consapevoli del bello che ci circonda ci educa a fare cose belle, a pensare cose belle e anche a dirle nella maniera corretta. È che a volte, presi come siamo nel vedere il brutto e parlarci su, ci dimentichiamo del bello che ci circonda e lo lasciamo scorrere via con l’inespressa consapevolezza che tanto c’è sempre e che ‘ogni tanto ritorna’. Il bello non sempre necessita di una eco mediatica, anche se quella educa: la Rai come servizio pubblico dovrebbe avere in questo senso sopratutto una funzione sociale. Un po’ come negli anni ‘60 quando il maestro Alberto Manzi con la trasmissione “Non è mai troppo tardi”, istruiva quella grossa fetta della popolazione italiana, figlia di un’Italia rurale post bellica, che non aveva tempo per l’ABC perché se no non si mangiava. Allo stesso modo oggi programmi di altissimo profilo sociale ed estetico come quelli di Alberto Angela devono rieducarci ad un gusto del bello come un tempo all’alfabetizzazione verbale, oggi oramai acquisita ed abusata nella sua volgarità! Il mio è uno inno al bello da ritrovare o forse ritrovato perché un festival non cambia di certo la vita, ma può curare le ferite che il brutto lascia e darti uno spunto per vivere meglio! Tante BELLE cose a tutti. Alla prossima