Le mani nella sabbia plasmano un delfino e una tartaruga. L'immaginazione crea forme. La realtà le deposita lì, accanto alle sculture. Concrete. Senza vita.
Come se la libertà avesse un nome e in un attimo lo avesse abbandonato tra le alghe. La morte di un gioco perenne tra suoni incompresi dall'orecchio umano e l'acqua purificatrice e misteriosa si presenta in tutta la tristezza che si porta dietro. Proprio dove i bambini giocano. Proprio dove i bambini smettono di giocare guardando senza parole quei figli del mare.
Un messaggio chiuso in una bottiglia, galleggiando forse nell'oceano, affidando alle onde le sue speranze, sta vagando tra i flutti in cerca di una strada di urla soffocate che siano spiragli di vita, di gioia, di amore e di futuro. Ha addosso il peso di una storia, ma troverà uno sbocco per raccontarla, negli occhi di chi lo troverà e ci costruirà sopra il sogno di un lieto fine.
Il delfino e la tartaruga non possono raccontare la loro storia, ma l'hanno di certo vissuta. Combattendo. Divertendosi forse. Incagliandosi in una rete. Attaccati da un predatore.
O semplicemente affidandosi a un destino che li ha voluti lì, un po' beffardo, ma maestro, davanti alle lacrime di chi si è commosso sulla spiaggia tra Le Canne e Rivabella, in una domenica come un'altra, con il vento del Salento, nella riflessione sulla fugacità, sulla fine che non risparmia nemmeno l'innocenza.
E due silenzi assordanti del tutto nuovi. Mai più vivi.